sabato 28 marzo 2015

Volare dopo il disastro: cosa fareste nei vostri ultimi 8 minuti?


La tragedia dell'Airbus Germanwings ha profondamente scosso il mondo del web, sia per la portata dell'incidente, sia per le agghiaccianti dinamiche con cui si è svolto. Dalle registrazioni della scatola nera, oltre al disperato tentativo del pilota di riprendere il controllo, emerge che i passeggeri avevano capito a cosa stavano andando incontro. E mentre tutto il mondo piange le sue vittime, il pensiero va inevitabilmente a cosa devono aver provato quelle persone nel sapere di essere a pochi minuti dalla fine della propria vita.

Per quanto mi riguarda, dovendo prendere un aereo il giorno successivo e avendo avuto incubi su un disastro aereo la notte prima, l'immedesimazione è stata violenta e inevitabile. E così, mentre il mio aereo iniziava le procedure di decollo, questo interrogativo martellava prepotente la mia mente.

Cosa faremmo se capissimo di essere a pochi minuti dalla morte?

Mentre vedevo le luci di Roma rimpicciolirsi fino a diventare una suggestiva ragnatela, mentre l'adrenalina del decollo mi accarezzava lo stomaco e le mie labbra - lo ammetto - si plasmavano in una preghiera involontaria trattenendo il respiro, ho realizzato che il primo pensiero sarebbe stato il rimpianto. Per tutto quello che ancora sognavo di fare, per i miei progetti, per gli anni che ho ancora il diritto di vivere.

Diritto, poi? Quale legge non scritta garantisce che nulla di brutto possa accadere finché si è giovani? Il mio pensiero va alla famiglia che si è imbarcata con me. All'adorabile bambina che si divertiva come una matta con la lampo della felpa del padre. Alla giovane mamma che, nervosa, borbottava tra sé e sé: Certo che se tutto sembra dirci di non prendere questo volo, forse non dovremmo prenderlo, no? Forse non è destino. Ma no, non può mica accader nulla a chi ha tutta la vita davanti? E poi ripenso al bambino di 10 mesi morto in quell'aereo. E capisco che diritti non ne ha nessuno.

Poi il pensiero è andato agli anni trascorsi, alla vita che finora ho vissuto. Immaginavo cosa avrebbero potuto dire di me, a un mio ipotetico funerale. E ho sentito che, per quanto era in mio potere, avevo vissuto una vita piena, felice, che mi ero abbeverata a tutte le opportunità, che in ogni momento più o meno bello avevo comunque sentito la gioia di vivere.

Infine, ho pensato alle persone a cui voglio bene. E la morsa di gelo allo stomaco, la paura viscerale di fronte all'ignoto, la sensazione di ingiusto si sono un po' stemperate. La mattina l'avevo passata con la mia più cara amica, in deliziose chiacchiere di quotidiana complicità. Il resto della giornata con il mio fidanzato, che avevo salutato direttamente in aeroporto. E una parte di me si è detta che, se proprio doveva accadere qualcosa di brutto, era bello sapere di aver passato le ultime ore con buona parte delle persone a cui tengo di più.

L'aereo infine è atterrato senza problemi, com'era ovvio che fosse.

Eppure sono certa che, come me, tutti i passeggeri di quel volo e dei molti partiti dopo l'incidente Germanwings, quella domanda se la siano fatta. E che d'ora in poi vivremo ogni momento in modo un po' più consapevole.


∼ Marta∼






martedì 17 marzo 2015

Degli dei e di altri demoni - Calliope di Alessandra Nitti

A cura di Alessandra Nitti



Favole, miti e leggende del mondo del fantastico, tra letteratura e arte. Viaggi vituali e reali d'evasione... tutto in una pagina: questa!


Se mi chiedi quali sono stati i miei grandi libri, sono stati i viaggiatori del passato, ho sempre viaggiato con loro, erano i miei migliori compagni di viaggio. 
Tiziano Terzani


Degli dei e di altri demoni
Calliope




Io ho un'arma. È affilatissima.
Nessuno mi ha mai dato la licenza per usarla. Forse perché a nessuno importa.
Sono molti quelli che ridono di me. Loro non sanno che io ho ucciso delle persone, decine di persone! E non mi fermerò di certo qui. Ho anche torturato, maltrattato e stuprato esseri umani. Lo ammetto, mi sono divertito. Mi piace sentirmi onnipotente, impugnare la mia arma e fare dell'altro ciò che voglio. Sono ebbro di questo potere, non potrei mai smettere. Ho visto teste fracassate e fiumi di sangue, ho visto membra stritolate e corpi polverizzati.
Non pensate che io sia un sadico. Almeno, non lo sono sempre.
Con la mia arma posso anche guarire le persone: le mie vittime o le vittime degli altri. Posso donargli una nuova vita, posso regalargli giornate di sole e momenti di felicità. Sono come un dio. O forse lo sono per davvero. Non so. A volte l'ebbrezza del potere non mi fa più discernere il vero dal falso: è questo il prezzo da pagare per poter possedere una tale arma.
Non è difficile da usare come sembra. Uccidere, ferire, guarire e donare un sorriso non è complicato. È tutto così terribilmente semplice che spesso mi sembra che il mio talento non sia poi tanto speciale.
La mia arma funziona come un pennello: prendi una tela bianca e incominci a dipingere. Con la mia arma, però, non hai bisogno di destreggiarti tra le migliaia di sfumature dei colori. Essa li ha già tutti dentro di sé.
Posso dipingere ciò che vedo e ciò che sento: dipingo i suoni e gli odori, dipingo volti, cuori e addirittura passioni, dipingo questo disegno che state osservando proprio ora.
I colori sono le parole e l'arma è la mia penna.

domenica 8 marzo 2015

Un normale venerdì in metro


Succede così, un venerdì come tanti.
Una mattina di quelle che ti senti felice ed energica che neanche uno spot della Mulino Bianco: scendi dal letto pimpante, consumi quasi con gioia quella fetta biscottata che è la tua colazione in regime di dieta biafrana, ti avvii per strada con il sole che sembra sorridere e gorgogliare come quello dei Teletubbies.

Passo baldanzoso, tracolla al fianco e biglietto in mano, ti dirigi serena verso l'entrata della metro.
E lì accade.
Non è la scritta "Tiburtina" che svetta sopra la tua testa, come il "lasciate ogni speranza" dell'inferno dantesco.
Non è neanche l'odore di alcol-urina-sporco e altre fragranze non meglio identificabili che colpisce le narici con la delicatezza di un panzer tedesco.
Perché mentre stai lì, un piede sul primo gradino e l'altro ancora nel mondo dei vivi, una soave voce metallica dà il suo annuncio di morte.
Si avvisano i signori viaggiatori che causa affollamento straordinario delle banchine, al treno in arrivo in direzione Laurentina seguirà un altro, più libero. 
Il sorriso vacilla, appassisce come un fiore di campo di fronte ad Attila.
Eppure dai, ti dici, non è la fine del mondo. Ci sarà da aspettare la metro successiva. A volte capita.
Ma dentro di te una vocina ti dice che no, non sarà come al solito.
Affollamento straordinario.
Deglutisci, mentre un vociare confuso riempie la tromba del sottopassaggio, striscia sulle pareti unte e arriva a te carico di minaccia incombente.
E poi ti fermi, semplicemente, perché una barriera umana impenetrabile si erge davanti a te, appena varcati i tornelli.
Inchiodi contro lo spilungone davanti, tendi il collo, cerchi di vedere.
Nulla.
Persone a perdita d'occhio.
Schiene e teste di ogni foggia e dimensione schierate come le 10.000 statue di terracotta dell'imperatore Qin Shi Huang.
Ma no, tu non ti perdi d'animo. Sei partita col piede giusto, e ok, questo è un piccolo inciampo, ma si può fare.
Stringi i denti. A gomiti alti come un marines che striscia, ti insinui fra la folla e non si sa come, contusa e confusa, arrivi a intravedere il binario proprio mentre la metro si avvicina.
Ecco, l'elettricità attraversa la folla come una freccia, si animano, cominciano a scalpitare.
Vedi lo sguardo dei passeggeri all'interno che cambia, iniziano a tremare, pensano di scendere alla successiva, ma ormai è troppo tardi.
Le porte di aprono, è un attimo di silenzio, di stasi, di respiro trattenuto.
E poi, al grido di "QUESTA E' SPARTAAAAAAAAAAAAA!!!" la folla si scaglia in avanti, invade il vagone, travolge gli illusi che pensavano di scendere... e tu, un po' trasportata dalla marea umana, un po' arrampicandoti su chi ti sta attorno, incredibile ma vero riesci a salire.
Con un calcio ti liberi dalla vecchietta abbarbicata al tuo piede, la scrolli via proprio mentre le porte si chiudono, ringhi contro chi solo si azzarda a dire "Non c'è posto, scendete".
Ce l'hai fatta, sei sopra.
Sì, stai mettendo a dura prova l'incomprimibilità della materia, ma sei sopra.
Ti torna il sorriso.
Poco importa del gomito conficcato tra le scapole, del borsone dietro le ginocchia che ti fa assumere la posizione della rana, del tizio davanti che praticamente può fare una planimetria completa delle tue tette spiaccicate addosso a lui, e che...
Che ti chiama per nome.
Perché non è un tizio.
"Ehi, ma sei tu".
No, rispondi dentro di te, impallidendo. Non sono io. Sono una sosia abbandonata da piccola che ha vissuto in Jamaica e si è data alla fabbricazione di cestini di paglia.
Ma no, tu sei proprio tu. E lui è proprio lui.
Il tuo ex.
Le sue ultime parole, crepa.
Sbocci in un sorriso talmente naturale che tra poco ti si spaccano le guance. "Ma che piacere..."
Della serie, speravo proprio di incontrarti dopo che mi hai lasciata facendomi soffrire come un cane, specialmente ora che ho l'aspetto di una profuga in quarantena e sono costretta a spiattellarti le tette sull'avambraccio.
Coincidenze che rallegrano la vita, insomma.
Lui sorride. "Ti vedo... benino, dai"
Ridillo e ti ficco un dito nell'occhio. Poi chissà come mi vedi.
"Oh, ti trovo bene anch'io. Vedo che la cura per la calvizie incipiente era tarocca come ti dicevo..." cinguetti, soave come una coltellata nello stomaco.
Tiè.
Inizia a chiacchierare del più e del meno, apparentemente noncurante che i vostri corpi aderiscano con effetto ventosa, da fare pop quando li stacchi.
Ma poi fa la fatidica domanda, e arriva il momento della rivalsa, della vendetta, della nemesi.
"Allora, come ti vanno le cose? Novità?"
Eccolo, il momento che hai pregustato da quando il suo brutto muso si è ripresentato a due centimetri dal tuo, insieme alla scoperta che la sua alitosi nel frattempo non è migliorata.
"Io?" Ti stiracchi e con fare casuale praticamente gli schiaffi la mano in faccia, rischiando di sfregiarlo con lo Swarovsky che troneggia fiero sull'anulare. Della serie, quando si ha classe. "Mah, niente di che".
Così come casualmente gli accenni che ora stai con un uomo molto più bello, elegante, gentile, facoltoso, importante e sessualmente esperto di lui, con tanto di enumerazione di conto in banca, proprietà varie, regali dal primo mese a oggi e già che ci sei anche la cronaca della vostra ultima vacanza.
Perché dicevo, quando si ha classe...
E prima che lui possa anche solo esprimere una qualsiasi considerazione sul fiume di parole che gli hai riversato addosso, esclami un "Oh, questa è la mia fermata, devo andare, ciao!" e ti concedi solo il tempo di dargli il tuo pacchetto di mentine, accompagnato dalla preghiera "usale", prima di scendere.
E mentre ti allontani soddisfatta tra la folla della fermata che ovviamente non era la tua, ti chiedi se non sia stato troppo ardito sventolare l'anello della nonna e citargli pari pari la trama della tua soap preferita.
Ma d'altra parte, a volte bisogna improvvisare.
Questa è la vita.
E questo è un normale venerdì in metro.


∼ Marta∼