mercoledì 25 febbraio 2015

[L'sW] - Crescere








Quella era finalmente la giornata speciale che Marco attendeva ormai da tempo, avrebbe affrontato la sua prova per l’indipendenza: da oggi avrebbe finalmente deciso lui.

Ormai era un uomo.
 
Si vestì con cura. La maglietta rossa con lo stemma sul lato sinistro. I jeans stirati di fresco. Le sneakers rosse e bianche ai piedi. Si pettinò in modo diverso dal solito, mise il gel per tenere alti i capelli bruni, normalmente portati con la frangia laterale. Poi prese lo zaino e se lo mise in spalla. Chiuse la porta e scese le scale. Sua madre era in cucina, come sempre a quell’ora.

Adele, la madre di Marco, era una donna ancora giovane. Un po’ in sovrappeso, ma questo non intaccava la sua bellezza. Gli occhi chiari e il viso tondo le davano un’aria da ragazzina. E poi quel sorriso speciale, che ogni volta le illuminava il viso – come quando d’improvviso sbuca l’arcobaleno dopo l’acquazzone.

Era bella, sua madre. Bella quando canticchiava mentre svolgeva le faccende domestiche, bella quando sorrideva. Bella anche quando s’infuriava, le piccole rughe sulla fronte a incupirle il viso e a oscurarle il chiaro degli occhi; ciò li rendeva, in quei momenti, ancora più profondi e pieni. E non è che Marco pensasse questo perché lei era sua madre, sapeva che Adele era bella, lo leggeva negli sguardi degli altri attorno a sé.

“Mamma, io vado” le disse serio, appoggiato alla porta della cucina. La voce tradì un leggero tremore, una nota d’ansia sfuggita al suo tentativo di dominare le emozioni.

Sua madre si voltò, negli occhi tracce di timori già espressi nei giorni precedenti. Aveva contrastato questa sua scelta come aveva potuto, poi l’irremovibilità di suo figlio e le argomentazioni di suo marito, l’avevano fatta desistere. Alla fine aveva ceduto.

“Bene, allora vai” gli rispose brusca, voltandogli le spalle.

“Sai che lo devo fare, mamma, ne abbiamo già parlato” le disse Marco, con un sospiro stanco, la mano destra appoggiata allo stipite, la sinistra sullo spallaccio dello zaino. Quant’era difficile farle capire che era arrivato il momento giusto, che lui era pronto!

“Sono grande, ormai” le ribadì, paziente.

Adele si voltò, sotto gli occhi un’ombra lieve, il segno di una notte non serena. Attese qualche istante, infine gli andò incontro abbracciandolo forte.

“Sì, sei grande ormai” gli rispose seria, nella sua voce c’era tutta la consapevolezza di questo figlio ormai sempre meno bambino.

“Beh, allora vado” annunciò finalmente Marco, staccandosi da quell’abbraccio e dando un’occhiata alla sua immagine riflessa attraverso lo specchio del corridoio. Si sistemò un ciuffo di capelli, lisciandoli con il palmo della mano, poi si voltò di nuovo verso sua madre ancora in attesa davanti alla porta.

“Ci vediamo dopo” la salutò, fingendo una sicurezza che non provava quasi più.

Uscì di casa e respirò l’aria fresca di prima mattina.
 
Tentennò per qualche istante, indugiando sul pianerottolo di casa.

Ne sarò capace?, si domandò, mentre ripercorreva mentalmente tutte le raccomandazioni dei suoi genitori, tutte le cose da compiere e le accortezze da usare. Ci rifletté e si sentì pronto: erano giorni che non faceva altro che rimuginarci sopra. Ora sapeva esattamente cosa doveva fare.

Un secondo dopo, sussultando per l’emozione, Marco fece i primi passi verso la fermata dell’autobus. Attraversò la strada con circospezione, mentre sentiva su di sé lo sguardo vigile di sua madre.

Arrivò con andatura dinoccolata alla fermata. Lì c’erano già Luca e Biagio, assieme alle loro madri, ad attenderlo, l’espressione stupita dipinta in volto.

“E tua madre?” gli domandarono i due amici, in coro.

Marco sospirò. Gettò l’ultima occhiata verso casa, sua madre era ancora lì alla finestra, poté scorgere il suo sguardo fiero e soddisfatto mentre lo salutava con la mano. Per la prima volta assaporò la sensazione di assoluta soddisfazione, un tuffo senza fiato nel vuoto, come mai prima gli era capitato di provare.

“Da oggi vado a scuola da solo” annunciò orgoglioso, allargandosi in un radioso sorriso.

Un sorriso da adulto, nei suoi pochi otto anni di bambino.

∼ Loriana ∼






domenica 22 febbraio 2015

Bacillomania - guida al riconoscimento dell'ipocondriaco seriale



Li riconosci come niente.
Sciarpina perennemente al collo, areosol sul comodino e enciclopedia medica sotto braccio, il primo bacillo che vola per aria è il loro.
Per gli ipocondriaci, infatti, stare male non è una situazione, ma una filosofia di vita. Così come filosofici e a vita sono i loro malanni, che si estendono senza sosta e senza requie per tutto l'arco dell'anno.
È primavera? Oh, per carità, sono allergici a pollini, spore, erba tagliata, aghi di pino, cibi verdi, cibi arancioni, fiori d'arancio, cacche di piccione e sputi di cammello.
Estate? Non sia mai. Il sole troppo forte dà eritema, la salsedine irrita la pelle, a mezzogiorno rischio il colpo di sole, a mezzanotte eh, quella è proprio l'arietta fredda che ti frega!
Autunno, non ne parliamo: il tempo cambia e uno non sa come vestirsi, la pioggerellina infastidisce le mucose, l'escursione termica tra notte e giorno fa impazzire il loro barometro interno e soccombere le quasi inesistenti difese immunitarie.
E l'inverno... ah, l'inverno. Lì arriva la goduria. Perché l'inverno offre loro una tale varietà di patologie da far diventare la contrazione della malattia una vera e propria arte: l'opera inizia da un tenue raffreddore, con pennellate di mal di gola e cefalea, e sfuma presto nell'influenza, variegata di faringite, laringite, bronchite, tracheite e qualsivoglia infiammazione delle vie aeree che finisca in -ite. Accolgono la variazione del termometro da 36.6 a 37.2 con un sospiro quasi soddisfatto e una chiamata al notaio per vergare le loro ultime volontà, senza dimenticare la visita lampo al prete per l'estrema unzione, che non si sa mai. Per non parlare poi delle amate placche, dal nome così brusco e definitivo da mettere a tacere qualsiasi tentativo di minimizzazione da parte degli amici intenzionati a stanarli dal loro letto di dolore.
Ma l'ipocondria del malato immaginario non si ferma all'apparato respiratorio: un'area particolarmente cara a questi fanatici dell'aspirina infatti è quella digestiva.
Senza contare gastriti, coliti e mal di pancia vari, di cui soffrono in maniera cronica e ineluttabile, i soggetti in questione non mangiano la pizza perché gonfia, le bibite provocano rigurgiti, il caffè fa venire l'acido, la frutta a pasto rallenta la digestione, il pomodoro mi resta qui, alcolici poi non ne parliamo: ascoltando il loro infallibile vademecum sulla corretta alimentazione verrebbe da pensare che si nutrano di aria e germogli di bambù, e chissà, forse è proprio così ed è per questo che anche la loro fisicità ricorda quella dei panda.
Ma la forma rotondeggiante potrebbe anche essere dovuta al notevole campionario di vestiti che l'ipocondriaco medio si porta indosso: per far fronte infatti a tutte le evenienze meteorologiche, ha fatto del “vestire a cipolla” il suo mantra, tanto che ora della cipolla ha assunto anche la conformazione (ma per fortuna non l'odore). Si parte dall'immancabile cannottierina di flanella, per passare tutti gli strati intermedi di t-shirt, camicia, maglioncino, cardigan, maglione e piumino d'oca, avendo sempre a disposizione in macchina il sempiterno giaccone da sci, che hai visto mai, una nevicata fuori stagione...
E poi arriva l'immancabile momento. Quella incredibile, fortunata, utopistica combinazione astrale per cui la testa non gli fa male, la gola è a posto, i denti non danno problemi, la pancia tace soddisfatta e perfino la cervicale riposa placidamente.
Un sorriso speranzoso e incredulo ci sboccia sulle labbra come una margherita a primavera, e la fatidica domanda ci esce in un sospiro teso e felice.
“Allora stai bene?”
E la risposta sarà sempre la stessa.
“Beh, in realtà sembra tutto a posto ma... mmmh non mi sento mica bene, sai?”

∼ Marta∼