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venerdì 22 maggio 2015

Degli dei e di altri demoni- Mnemosine

A cura di Alessandra Nitti



Favole, miti e leggende del mondo del fantastico, tra letteratura e arte. Viaggi vituali e reali d'evasione... tutto in una pagina: questa!



Se mi chiedi quali sono stati i miei grandi libri, sono stati i viaggiatori del passato, ho sempre viaggiato con loro, erano i miei migliori compagni di viaggio. 
Tiziano Terzani


Degli dei e di altri demoni
Mnemosine


Vedete questa foto? Quella.... quella ero io, tanto tempo fa. Non c'è molto da ricordare di quel periodo, a volte i miei pensieri sfumano via e mescolo realtà e sogno. La mia mente non è più quella di una volta, non sono più sveglia come lo ero allora. Guardatemi, ero carina e giovane. Avevo il viso imbronciato, pensavo che mi facesse più bella quell'espressione, ma dentro di me sorridevo. Sorridevo perché ero felice e viva. Semplicemente.
Avevo una grande passione per la fotografia, non mi staccavo mai dalla mia Canon regalatami dai miei genitori il giorno della laurea. Laurea... il risultato di anni sprecati dietro banchi accademici. A cosa mi sarebbe servito quel foglio? Io volevo essere una fotografa, vedere le immagini prendere vita sulla carta. Questa foto qui, ad esempio... Non vedete i granelli di polvere vorticare fra le macerie? Non sentite l'odore di umido e distruzione che emana? Se mi rispondete di no significa che non sono riuscita nel mio intento, ma scommetto che la vostra risposta è positiva. Non lo nego, ero talentuosa.
Foto di Jolly 78 tratta da Minimee

Questa foto è stata scattata in una tiepida serata di luglio, poco dopo la mia laurea. Mi infilai in macchina e partii, una canzone rock fuoriusciva dalle casse, il vento fresco mi accarezzava il viso. Il sole era basso e luminoso, tingeva il mondo di arancione, il mio colore preferito. La strada si stendeva solitaria di fronte a me: era l'ora della partita dei Mondiali, in giro non c'era nessuno e godevo di quel momento. Il mondo era mio. La macchina fotografica, fedele compagna di viaggio, giaceva sul sedile accanto al mio. Non sapevo bene cosa fotografare, sapevo solo che l'ora del tramonto era la migliore per le foto. Gli donava quel fascino particolare e un tocco di classicismo che non stanca mai. Dopo un po' mi resi conto che non c'era bisogno di andare lontano: la mia città era una distesa di grigie macerie illuminate dal sonnolento sole serale. Pochi anni prima un terremoto aveva distrutto la mia terra, mangiato uomini e case. Da allora la situazione non era migliorata di molto: da anni vivevamo nel ricordo dei morti e di una vita sfasciata da quelle scosse. Non riuscivamo ad andare avanti. Avevamo salvato i nostri amici con le mani e ora... ora sembrava che la mia città fosse ancora nel pieno di quell'inferno.
Volevo fotografare, volevo mostrare ai posteri le condizioni in cui eravamo, senza aiuto da parte di nessuno. Fermai la macchina di colpo, girai la chiave e la musica cessò. Afferrai la macchina fotografica e me la infilai al collo. Mi avvicinai a una casa diroccata. La natura continuava placida il proprio corso e rampicanti ed erbacce coprivano la facciata, si infilavano nelle finestre, sbucavano tra le tegole del tetto semi crollato. Mi ricordo di quella villetta, vi vivevano due anziani signori benestanti. Lei era morta sotto il crollo del soffitto, lui di crepacuore durante gli infiniti funerali che si erano svolti in quei giorni. Attraversai il giardino colmo di calcinacci e raggiunsi la porta, che si teneva su solo grazie a uno dei possenti cardini. Presto anche quello avrebbe ceduto. L'aprii con cautela. Avevo paura che qualcuno sbucasse fuori dal nulla, un drogato o un barbone. Feci qualche passo e fui investita dall'odore acre della muffa e da quello pungente dell'umidità. Guardai un'ultima volta oltre il portone d'ingresso, il sole scendeva lentamente, dovevo muovermi se volevo catturare gli ultimi raggi rossastri che penetravano tra le finestre aperte e illuminavano le macerie. Non c'era molto, immaginai che tutta la roba salvatasi fosse stata vittima degli sciacalli. C'erano solo alcune sedie sfondate e un sofà pieno di polvere e con l'imbottitura che usciva da vari squarci.
Salii al piano superiore e trovai la camera da letto. C'erano ancora la rete del letto, un armadio e una sedia imbottita, quella che vedete nella foto. Un ampio balcone lasciava entrare i raggi serali. La luce era perfetta. Scattai un paio di foto all'ambiente. Chissà se le avrei mostrate al mondo o se le avrei conservate per i miei nipoti, così che sapessero che la loro città, anni prima, era stata devastata da forti scosse per lunghi giorni pieni di morte e di paura. Guardai il risultato nello schermo: non mi piaceva. Mancava qualcosa. Ma cosa? Dovevo affrettarmi, il sole ora aveva già iniziato a nascondersi oltre l'orizzonte. Poi capii: ero io l'elemento mancante. Anche io un giorno sarei stata solo un ricordo di quella città, del terremoto, un granello di polvere persa nell'immensità del mondo. Posizionai la macchina fotografica sulla rete e presi l'inquadratura. Poi posi la sedia davanti all'obiettivo e mi sedetti al contrario. Imbronciai il viso.
5...
4...
3...
2...
1...
Click
Il sole sprofondò, lasciando che il mondo si tingesse di blu. Uscii in fretta dalla casa, non volevo star lì di notte a sentire l'ululato del vento e i ricordi di un dolore passato. Mi infilai in macchina e accesi lo stereo. Con il vento che mi accarezzava il viso, tornai a casa mia.
Decisi di conservare l'immagine per i miei nipoti. Ora che sono passati decenni da quel maledetto terremoto e la città è stata finalmente rimessa a nuovo, i miei ragazzi devono sapere quello che successe. Io li aspetto ogni sabato, quando mi ricordo che è sabato. Si siedono accanto al mio lettino dalle lenzuola candide e poggiano sulle mie ginocchia una scatola magica, che io apro come se fosse un regalo di Natale, e inizio a sfogliare le foto. I ricordi della mia gioventù si fanno spazio tra la nebbia della malattia che mi opprime la mente e cominciano a danzare attorno ai miei occhi. Con un dito indico i dettagli, le tecniche, le emozioni e gli odori di ogni foto, racconto ai miei nipoti le storie che vi sono dietro e loro sono felici di sentir parlare di un mondo che non c'è più.

La mia foto preferita rimane quella scattata in quella serata di luglio di tanti anni fa, che mi ritrae bella e giovane in un mondo distrutto. La tengo sul comodino, in una cornice, così che, ogni volta che i miei ricordi fuggono via spinti nell'oblio della malattia, io possa rimembrare la mia giovinezza.




venerdì 17 aprile 2015

Degli dei e di altri demoni - Alfeo

A cura di Alessandra Nitti



Favole, miti e leggende del mondo del fantastico, tra letteratura e arte. Viaggi vituali e reali d'evasione... tutto in una pagina: questa!



Se mi chiedi quali sono stati i miei grandi libri, sono stati i viaggiatori del passato, ho sempre viaggiato con loro, erano i miei migliori compagni di viaggio. 
Tiziano Terzani


Degli dei e di altri demoni
Alfeo


Alfeo


Lisaweta era una puttana.
In piedi accanto alla finestra, osservava la neve vorticare oltre i vetri appannati. Espirò l'ultima boccata di fumo, poi spense la sigaretta nel posacenere, schiacciandola con forza. Guardò il mozzicone, così stritolato e con quella macchia di rossetto simile a sangue, agonizzante. Due colpi alla porta la riscossero dai suoi pensieri. Si sistemò meglio la pelliccia che le aveva regalato qualcuno anni prima, uno straniero in viaggio a Mosca.
Altri due colpi.
Lisaweta si avvicinò e fece scattare la serratura. Aprì la porta, una folata gelida si introdusse nella stanza, subito seguita da un uomo.
«Sei tornato, Sacha.»
L'uomo entrò senza rispondere, si ripulì il naso con la manica del pastrano consunto. Lisaweta lo guardò per alcuni istanti: Sacha sembrava parte dell'arredamento, o forse lo era davvero, vecchio e consumato, con i capelli biondi ingrigiti come la pelle da gran bevitore, aveva la stessa tonalità dell'intonaco crepato della stanza. Il fisico, sghembo e rotto, assomigliava vagamente all'armadio con l'anta penzolante per metà e al letto con una gamba più corta che traballava fastidiosamente quando Lisaweta lavorava. L'uomo fissò i suoi occhi grigi e iniettati di sangue sulla donna. Le si avvicinò, inondandola con il suo puzzo di alcol.
«Oggi è il mio giorno di riposo.» Lisaweta si ritrasse, rabbrividendo di ribrezzo. «E sono due mesi che fai credito.»
«Non ho soldi» si difese l'uomo, la voce ispida graffiò le orecchie di Lisaweta come carta vetrata.
««Allora va' via e torna quando avrai di che pagarmi.» Indicò con una mano la porta.
L'uomo non si mosse, rimase lì a guardarla con la bocca aperta, sperando che Lisaweta cambiasse idea. Si portò una mano sui calzoni, toccandosi lievemente.
Lisaweta si avvicinò alla finestra e si accese un'altra sigaretta, decisa ad ignorare l'uomo. Due coraggiosi passanti attraversarono la strada gelata di quella mattina di novembre. Sentiva lo sguardo ansioso di Sacha bruciarle la nuca, i passi strascicanti dell'uomo avvicinarsi a lei. Non la toccò, si sedette di fronte a lei e si abbassò i pantaloni, senza smettere di accarezzarsi.
Lisaweta fumava, nervosa: le faceva ribrezzo quell'uomo e le faceva ribrezzo la propria vita. Eppure provava compassione per entrambi.
La giovane e bella Liza, piena di vita e serena, amata da molti, era stata strappata dai suoi sogni di bambagia. Confusa, aveva iniziato a disprezzare la vita, a odiarla, con amarezza e disillusione aveva colto l'inutilità dell'esistenza.
Si era ritrovata in quella stanzetta del terzo piano che puzzava di fumo e di sesso, con l'intonaco che si staccava dalle pareti e le piastrelle del pavimento che si spaccavano per il freddo. Guardò Sacha, anche lui una volta era stato bello e giovane ed era stato strappato via dai suoi sogni. Ora non poteva neanche più permettersi una puttana. A Lisaweta fece pena. Spense la sua sigaretta proprio mentre Sacha veniva sulle sue stesse mani. Lei li guardò entrambi, il mozzicone di sigaretta e il mozzicone di uomo. Sacha aveva consumato la sua vita e si era ritrovato tra le mani solo cenere attorno a quel corpo bruciato dagli anni, dai vizi e dai tormenti. L'uomo si ripulì velocemente ed uscì dalla stanza senza dire una parola, Lisaweta si avvicinò allo specchio e guardò la donna che vi era riflessa.
Le labbra piene curvate dall'amarezza erano tinte di rosso, la pelle liscia aveva una sfumatura giallastra, i capelli biondi legati in alto parevano sbiaditi, come la sua stessa anima, il collo era ancora alto e liscio, ma non sarebbe durato tanto. Presto sarebbe diventato grigio come le pareti di quella stanza, come le pareti della sua esistenza.
Forse poteva ancora salvarsi, lì, sul ponte.
Lì c'era la sua via d'uscita.
Corse fuori, avvolta nella sua pelliccia, consumata anch'essa, come tutto quello che la circondava. Corse per le strade della capitale, scivolò sul ghiaccio e cadde, si rialzò velocemente e continuò la sua folle corsa verso l'uscita di sicurezza.
Arrivò.
Sotto di lei il fiume era ghiacciato. Sapeva che se si fosse gettata da quell'altezza avrebbe frantumato il ghiaccio e sarebbe stata accolta dalle acque torbide e fredde. Per sempre. Si rammaricò pensando che avrebbe potuto portare con lei Sacha. Avrebbe potuto salvarlo dal grigiore. Dalla solitudine. Dall'amarezza.
Amara.
Così era stata la breve vita della bella Liza.

Si lasciò cadere giù, richiamata dalla dolcezza delle tenebre eterne.

 

martedì 17 marzo 2015

Degli dei e di altri demoni - Calliope di Alessandra Nitti

A cura di Alessandra Nitti



Favole, miti e leggende del mondo del fantastico, tra letteratura e arte. Viaggi vituali e reali d'evasione... tutto in una pagina: questa!


Se mi chiedi quali sono stati i miei grandi libri, sono stati i viaggiatori del passato, ho sempre viaggiato con loro, erano i miei migliori compagni di viaggio. 
Tiziano Terzani


Degli dei e di altri demoni
Calliope




Io ho un'arma. È affilatissima.
Nessuno mi ha mai dato la licenza per usarla. Forse perché a nessuno importa.
Sono molti quelli che ridono di me. Loro non sanno che io ho ucciso delle persone, decine di persone! E non mi fermerò di certo qui. Ho anche torturato, maltrattato e stuprato esseri umani. Lo ammetto, mi sono divertito. Mi piace sentirmi onnipotente, impugnare la mia arma e fare dell'altro ciò che voglio. Sono ebbro di questo potere, non potrei mai smettere. Ho visto teste fracassate e fiumi di sangue, ho visto membra stritolate e corpi polverizzati.
Non pensate che io sia un sadico. Almeno, non lo sono sempre.
Con la mia arma posso anche guarire le persone: le mie vittime o le vittime degli altri. Posso donargli una nuova vita, posso regalargli giornate di sole e momenti di felicità. Sono come un dio. O forse lo sono per davvero. Non so. A volte l'ebbrezza del potere non mi fa più discernere il vero dal falso: è questo il prezzo da pagare per poter possedere una tale arma.
Non è difficile da usare come sembra. Uccidere, ferire, guarire e donare un sorriso non è complicato. È tutto così terribilmente semplice che spesso mi sembra che il mio talento non sia poi tanto speciale.
La mia arma funziona come un pennello: prendi una tela bianca e incominci a dipingere. Con la mia arma, però, non hai bisogno di destreggiarti tra le migliaia di sfumature dei colori. Essa li ha già tutti dentro di sé.
Posso dipingere ciò che vedo e ciò che sento: dipingo i suoni e gli odori, dipingo volti, cuori e addirittura passioni, dipingo questo disegno che state osservando proprio ora.
I colori sono le parole e l'arma è la mia penna.