venerdì 17 aprile 2015

Degli dei e di altri demoni - Alfeo

A cura di Alessandra Nitti



Favole, miti e leggende del mondo del fantastico, tra letteratura e arte. Viaggi vituali e reali d'evasione... tutto in una pagina: questa!



Se mi chiedi quali sono stati i miei grandi libri, sono stati i viaggiatori del passato, ho sempre viaggiato con loro, erano i miei migliori compagni di viaggio. 
Tiziano Terzani


Degli dei e di altri demoni
Alfeo


Alfeo


Lisaweta era una puttana.
In piedi accanto alla finestra, osservava la neve vorticare oltre i vetri appannati. Espirò l'ultima boccata di fumo, poi spense la sigaretta nel posacenere, schiacciandola con forza. Guardò il mozzicone, così stritolato e con quella macchia di rossetto simile a sangue, agonizzante. Due colpi alla porta la riscossero dai suoi pensieri. Si sistemò meglio la pelliccia che le aveva regalato qualcuno anni prima, uno straniero in viaggio a Mosca.
Altri due colpi.
Lisaweta si avvicinò e fece scattare la serratura. Aprì la porta, una folata gelida si introdusse nella stanza, subito seguita da un uomo.
«Sei tornato, Sacha.»
L'uomo entrò senza rispondere, si ripulì il naso con la manica del pastrano consunto. Lisaweta lo guardò per alcuni istanti: Sacha sembrava parte dell'arredamento, o forse lo era davvero, vecchio e consumato, con i capelli biondi ingrigiti come la pelle da gran bevitore, aveva la stessa tonalità dell'intonaco crepato della stanza. Il fisico, sghembo e rotto, assomigliava vagamente all'armadio con l'anta penzolante per metà e al letto con una gamba più corta che traballava fastidiosamente quando Lisaweta lavorava. L'uomo fissò i suoi occhi grigi e iniettati di sangue sulla donna. Le si avvicinò, inondandola con il suo puzzo di alcol.
«Oggi è il mio giorno di riposo.» Lisaweta si ritrasse, rabbrividendo di ribrezzo. «E sono due mesi che fai credito.»
«Non ho soldi» si difese l'uomo, la voce ispida graffiò le orecchie di Lisaweta come carta vetrata.
««Allora va' via e torna quando avrai di che pagarmi.» Indicò con una mano la porta.
L'uomo non si mosse, rimase lì a guardarla con la bocca aperta, sperando che Lisaweta cambiasse idea. Si portò una mano sui calzoni, toccandosi lievemente.
Lisaweta si avvicinò alla finestra e si accese un'altra sigaretta, decisa ad ignorare l'uomo. Due coraggiosi passanti attraversarono la strada gelata di quella mattina di novembre. Sentiva lo sguardo ansioso di Sacha bruciarle la nuca, i passi strascicanti dell'uomo avvicinarsi a lei. Non la toccò, si sedette di fronte a lei e si abbassò i pantaloni, senza smettere di accarezzarsi.
Lisaweta fumava, nervosa: le faceva ribrezzo quell'uomo e le faceva ribrezzo la propria vita. Eppure provava compassione per entrambi.
La giovane e bella Liza, piena di vita e serena, amata da molti, era stata strappata dai suoi sogni di bambagia. Confusa, aveva iniziato a disprezzare la vita, a odiarla, con amarezza e disillusione aveva colto l'inutilità dell'esistenza.
Si era ritrovata in quella stanzetta del terzo piano che puzzava di fumo e di sesso, con l'intonaco che si staccava dalle pareti e le piastrelle del pavimento che si spaccavano per il freddo. Guardò Sacha, anche lui una volta era stato bello e giovane ed era stato strappato via dai suoi sogni. Ora non poteva neanche più permettersi una puttana. A Lisaweta fece pena. Spense la sua sigaretta proprio mentre Sacha veniva sulle sue stesse mani. Lei li guardò entrambi, il mozzicone di sigaretta e il mozzicone di uomo. Sacha aveva consumato la sua vita e si era ritrovato tra le mani solo cenere attorno a quel corpo bruciato dagli anni, dai vizi e dai tormenti. L'uomo si ripulì velocemente ed uscì dalla stanza senza dire una parola, Lisaweta si avvicinò allo specchio e guardò la donna che vi era riflessa.
Le labbra piene curvate dall'amarezza erano tinte di rosso, la pelle liscia aveva una sfumatura giallastra, i capelli biondi legati in alto parevano sbiaditi, come la sua stessa anima, il collo era ancora alto e liscio, ma non sarebbe durato tanto. Presto sarebbe diventato grigio come le pareti di quella stanza, come le pareti della sua esistenza.
Forse poteva ancora salvarsi, lì, sul ponte.
Lì c'era la sua via d'uscita.
Corse fuori, avvolta nella sua pelliccia, consumata anch'essa, come tutto quello che la circondava. Corse per le strade della capitale, scivolò sul ghiaccio e cadde, si rialzò velocemente e continuò la sua folle corsa verso l'uscita di sicurezza.
Arrivò.
Sotto di lei il fiume era ghiacciato. Sapeva che se si fosse gettata da quell'altezza avrebbe frantumato il ghiaccio e sarebbe stata accolta dalle acque torbide e fredde. Per sempre. Si rammaricò pensando che avrebbe potuto portare con lei Sacha. Avrebbe potuto salvarlo dal grigiore. Dalla solitudine. Dall'amarezza.
Amara.
Così era stata la breve vita della bella Liza.

Si lasciò cadere giù, richiamata dalla dolcezza delle tenebre eterne.

 

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